Ernst Jünger partecipò alla Prima guerra mondiale con i gradi di sottotenente della Wehrmacht. Il suo comportamento in prima linea lo rese leggendario: ferito quattordici volte, ricevette numerosi riconoscimenti al valore, compreso il più alto, l’“Ordre pour le mérite”. Portava sempre in tasca un taccuino su cui fissava con precisione gli avvenimenti.
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Da quelle note, in seguito all’insistenza del padre, si persuase a trarre un libro che avrebbe dovuto intitolarsi “Il rosso e il grigio”, in omaggio all’amato Stendhal e ai colori mesti e uggiosi della guerra in trincea; Jünger preferì alla fine l’immagine tratta da un poema medioevale islandese. Oggetto di ambigui entusiasmi negli anni Venti e Trenta, le “Tempeste” ci appaiono oggi la più agghiacciante testimonianza sulla Grande Guerra e l’espressione già perfetta della sovrumana capacità di osservazione di Jünger e della prosa fredda e cristallina che egli ha forgiato. Come scrive Giorgio Zampa nell’introduzione, «l’opera è omogenea: la sua cifra stilistica è unica, la sua coesione non viene mai meno... La tensione che traversa resoconti e cronache è costante, grazie a uno stile di tale perfezione che annulla se stesso... Le “Tempeste” appartengono al genere epico per disposizione naturale: l’autore si pone di fronte alla realtà e la restituisce, conferendole un’autonomia di cui solo l’epico è capace...“In Stahlgewittern” va veduto come un “unicum” nella letteratura del secolo: per essere senza antecedenti né seguito chiede di essere considerato al di fuori degli schemi della letteratura di guerra, di riferimenti solo ideologici e politici. Dare un giudizio su questo libro, che Jünger chiama il primo del suo Vecchio Testamento («occhio per occhio, dente per dente») dopo aver letto (o non letto) i diari dell’ufficiale che compì il 6 agosto 1945 la sua missione su Hiroshima, non è agevole. Le “Tempeste” figurano come un masso erratico nella distesa sterminata della letteratura europea».